Se qualcuno mi chiedesse cosa mi piace meno e cosa di più del viaggiare in luoghi remoti per lavoro metterei come apice negativo il check-in in aeroporto dove a volte si viene trattati, a seconda delle situazioni, come pericolosi terroristi (sì, anche un microfono può sembrare un oggetto estremamente pericoloso, vero Enrico Andreis?) o come completi idioti. Però la parte positiva è sempre, almeno per me, estremamente stimolante. Poter conoscere nuovi popoli e il loro modo di approcciare la vita di tutti i giorni è una fortuna non da tutti. Quindi il poter stare alcuni giorni in un luogo che immaginavo una via di mezzo tra Cina e Giappone l’ho visto come una splendida occasione. Senza dilungarmi troppo e lasciando spazio ai visi di Seoul e a qualche angolo della città mi vengono alla mente alcune cose sparse tra loro. I Coreani del Sud sono quasi sicuramente gli asiatici più europeizzati, tolti i luoghi che fanno storia a parte essendo stati un’Europa lontana dal continente come Singapore e Hong Kong. C’è molto dell’ordine Giapponese, ma senza l’ossessione del Paese del Sol Levante. Le architetture sono molto interessanti e sopperiscono alla mancanza di una storia “monumentale” provocata dalla distruzione portata dal Giappone nei secoli e soprattutto durante la seconda guerra mondiale. Si è invasi da vetture Coreane che neanche la FIAT dei tempi d’oro era così in Italia e tutte le vetture, guidate in un modo folle e anacronistico, hanno i vetri oscurati. Non alcune… tutte. Al che non puoi neanche scaricare un po’ di “road rage” perché neanche vedi chi stai mandando all’inferno (vero Emanuele Marafante?). La sensazione che mi è rimasta è proprio di un popolo senza un’anima ben precisamente connotata. Anche quando guardavo le bancarelle di cibo (e nelle foto ce ne sono molte) cercavo di trovare una strada che mi è rimasta oscura. E allora mi sono detto “alla prossima, ci rincontreremo e forse ci capiremo meglio reciprocamente”.